La Tradizione, un albero che vive grazie a radici forti

Una pianta vive e si sviluppa solo se ha radici forti e profonde, in grado di assorbire il nutrimento dal terreno in cui cresce. Vi sono immensi alberi pietrificati, imponenti nel loro passato ma assolutamente incapaci di produrre anche una sola minuscola gemma, testimoni di una grandezza che fu ma che purtroppo mai più sarà.
Troppo spesso il termine  “tradizione” è associato a qualcosa di sorpassato, inutile, magari anche piacevole e interessante ma solo per un museo o per ricordare chiacchierando il bel tempo che fu. I detrattori della tradizione invocano il cambiamento, la necessità di adattarsi ai tempi moderni, l’anacronismo di voler affrontare il futuro con i mezzi del passato.

Una simile visione, oltremodo miope e non poche volte in malafede, priva chi la adotta dei grandi vantaggi e dell’immenso patrimonio che una conoscenza tradizionale possiede e tramanda da secoli, se non da millenni.

Nomen omen

E’ sempre interessante analizzare l’etimologia dei termini che utilizziamo, perché offrono frequentemente piacevoli sorprese; “tradizione” deriva dal latino “tradere” con il significato di “trasmettere, consegnare”. Primo ed irrinunciabile obbiettivo di una Scuola, di una associazione o di una organizzazione che voglia definirsi tradizionale è quindi non solo quello di avere un bagaglio di conoscenze, ma – soprattutto – di essere strutturata per trasmetterle in maniera efficace e coerente ai suoi membri, in modo che la Scuola, la associazione o la organizzazione possano sopravvivere al passare del tempo ed alla naturale dipartita dei loro membri più vecchi.

Una delle immagini più efficaci che possiamo utilizzare in questo senso è quella che spesso richiama il Maestro Severino Maistrello, Direttore Tecnico della Wudang Fu Style Academy e successore del Gran Maestro To Yu: chi appartenga ad una organizzazione tradizionale deve vedersi come un lago, che riceve l’acqua della conoscenza dai suoi Maestri ed a sua volta la trasmette ai suoi discepoli. Chi - per miopia o egoismo – volesse solo ricevere senza dare, farebbe la fine di una pozza d’acqua stagnante, destinata in breve tempo ad intorbidirsi e puzzare di marcio. Non migliore sorte toccherebbe a chi – schiavo del suo Ego – pensasse di dare più di quanto realmente possiede; sarebbe destinato a trasmettere nulla di sostanziale, vuote chiacchiere forse affascinanti ma prive di una reale sostanza.

Sono questi i rischi che qualunque appartenente ad una tradizione, e soprattutto chi si sia assunto l’onore e l’onere di trasmetterla devono avere sempre ben presenti, perché dalla stessa radice di “tradere” deriva anche il verbo “tradire”, con il chiaro significato che noi tutti conosciamo.

Una storia viva

Appare quindi chiaro che per potersi dire davvero tradizionale, una qualsivoglia Scuola, associazione o organizzazione, non deve solo avere alle spalle una storia, un curriculum ed un lignaggio chiaramente documentati e verificabili, ma deve soprattutto essere “viva e vegeta”. Un altro paragone che spesso Sifu Severino Maistrello fa è quello dell’albero; una pianta vive e si sviluppa solo se ha radici forti e profonde, in grado di assorbire il nutrimento dal terreno in cui cresce. Vi sono immensi alberi pietrificati, imponenti nel loro passato ma assolutamente incapaci di produrre anche una sola minuscola gemma, testimoni di una grandezza che fu ma che purtroppo mai più sarà. 

Quando una trasmissione tradizionale si interrompe, niente e nessuno possono riannodare i fili perduti ed a nulla valgono i proclami di chi sostiene di aver recuperato sapienze perdute,  in modi non di rado più adatti alle fantasie di un film di Indiana Jones che alla attitudine di un serio praticante. E questo non perché si voglia rifiutare l’innegabile apporto che seri studiosi o appassionati ricercatori possono apportare alla conoscenza della storia e delle origini delle tradizioni, ma perché la tradizione – per essere tale – necessita di una trasmissione “da bocca ad orecchio”, da un insegnante al suo discepolo in maniera attenta e costante, dosata con cura e amministrata con sapienza. 

Così è avvenuto in passato e cosi avviene ancora oggi tra un Maestro ed i suoi pochi allievi “interni”, ciascuno dei quali riceve dal suo mentore quanto è a lui necessario e quanto in quel momento è in grado di comprendere. A questi allievi vengono trasmesse, in tempi e modi adeguati, non solo le tecniche ma anche i principi che ne sono alla base e che permettono di svilupparne le applicazioni, che possono essere innumerevoli come le foglie che crescono sui rami di un albero in buona salute.

 Agli altri, agli allievi “esterni”, viene trasmessa una “forma” esteriormente piacevole ma quasi sempre priva di sostanza, in maniera da evitare di “gettare perle ai porci” che – come viene evangelicamente detto - quelle perle potrebbero calpestare per poi rivoltarsi contro chi le avesse incautamente donate a chi non può o vuole apprezzarle.

Un legame eterno

Le associazioni tradizionali sono spesso paragonate ad una famiglia; perché questa cresca e prosperi ciascun membro deve essere consapevole del suo ruolo e della gerarchia di cui fa parte, curandosi non solo del proprio benessere ma anche della prosperità di tutti gli altri membri. E così, non a caso i membri di una associazione tradizionale si riconoscono tra loro come fratelli e sorelle e altrettanto non a caso il termine cinese “Sifu” (師父), che usualmente noi traduciamo come “Maestro”, contiene il radicale 父 che indica proprio la figura paterna.

Questo comporta che tra Maestro ed allievo debba esserci un mutuo riconoscimento, condizione che nelle Scuole tradizionali cinesi viene sancita con una cerimonia pubblica dall’alto valore simbolico chiamata “Bài Shī” o in cantonese “Baai Si” (拜師) composto da due caratteri che si traducono rispettivamente come “inchinarsi” e “Maestro, insegnante”. Si tratta di una vera e propria adozione, attraverso la quale agli allievi era permesso entrare nella casa del loro insegnante (di cui spesso prendevano addirittura il cognome) e nel corso della quale veniva fatto un giuramento di fedeltà alla Scuola ed al Maestro stesso.

Onori ed oneri

Con questa cerimonia l’allievo non solo diventava parte del lignaggio del suo Maestro, ma si impegnava a proteggere i segreti della Scuola e ad assicurarne la prosperità; in altre parole si metteva in pratica il principio che i latini esprimevano con la frase “ubi maior minor cessat”, tale per cui l’allievo accettava di sacrificare (etimologicamente…) se stesso a favore della Scuola stessa.

Oggi questo può farci sorridere o sembrarci esagerato, ma è proprio questa reazione che spiega – meglio di qualunque altra – il declino, o addirittura la scomparsa, di molte Scuole tradizionali; non sono quasi mai mancati i Maestri desiderosi di trasmettere le loro esperienze quanto piuttosto gli allievi disposti ad assumersi il compito di ricevere questa eredità. Chi - non di rado a sproposito – lamenta l’atteggiamento di cauto riserbo di alcune Scuole verso chi voglia ottenere tutto e subito deve avere ben presente che è proprio questa precauzione che ha permesso a queste stesse Scuole di attraversare secoli e millenni e giungere fino a noi, vivificate da Maestri consci che la forza di una catena è data dalla resistenza dell’anello più debole e confortati dalla consapevolezza che “i segreti si sanno proteggere da soli”, come spesso ricorda Sifu Maistrello.